Giù le mani dall’identità di genere

  

Facciamo chiarezza nel dibattito tra femministe sul DDL Zan

Articolo a cura di Natascia Maesi
Responsabile Politiche di genere – Arcigay
Coordinatrice della Rete Donne Transfemminista che ha dato un contributo fondamentale all’elaborazione politica su questo ed altri temi, attraverso la realizzazione degli appuntamenti transfemministi. 

 

In questi giorni, il dibattito sul ddl Zan ha assunto toni e modalità che ci preoccupano perché producono pericolose distorsioni e mistificazioni, allontanandoci dalla realtà.

C’è un aspetto del testo unico depositato alla Commissione Giustizia che ha sollevato un dibattito forte, a tratti molto aspro, sul quale sentiamo l’esigenza di prendere parola, nel rispetto che ogni dibattito merita ma anche nella convinzione che non sia un testo di legge – al quale si chiede di essere efficace, per cui univoco nell’interpretazione – il luogo in cui ridiscutere un apparato teorico o addirittura esplorare nuove sintesi. Ne parliamo qui e ne parleremo ancora in tutti i luoghi in cui sarà necessario farlo, nella speranza che questa discussione venga tolta dalla disponibilità di chi la strumentalizza per far naufragare l’ennesimo tentativo di approvare una legge contro l’omo-lesbo-bi-trans-afobia, attesa in questo Paese da decenni. Questo aspetto riguarda le parole sessogenereidentità di genere, presenti nel testo e problematizzato da una parte dei movimenti delle donne.

Innanzitutto, questa legge, stando al testo depositato, sanziona, previene e contrasta le discriminazioni basate su sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. La recente introduzione del termine sesso – chiesta a gran voce da una parte del movimento femminista per affermare l’incancellabilità della differenza sessuale – in realtà apre al riconoscimento della specifica condizione delle persone intersex, andando ad includere i corpi non ascrivibili esclusivamente alle categorie di sesso “maschile”/”femminile”. E questo ci sembra un avanzamento.

Nel testo si parla di orientamento sessuale nella sua massima estensione. Anche qui, la norma pensata per proteggere le persone gay, lesbiche, bisessuali e asessuali, finisce per includere e comprendere anche le persone eterosessuali. Per intenderci, la legge tutelerebbe anche l’inverosimile caso in cui, un ragazzo fosse insultato o picchiato per aver baciato pubblicamente la propria ragazza. Un caso inverosimile, lo ribadiamo, sul quale una parte della destra italiana reitera richieste e riferimenti sciocchi. Pertanto, mentre sul piano valoriale e della legge penale, una discriminazione agita nei confronti di una persona perché eterosessuale è uguale ad una discriminazione che colpisce una persona perché omosessuale, sul piano fattuale e in concreto, sappiamo che la legge va ad incidere sulle discriminazioni e le violenze legate all’odio che ad oggi riguardano soprattutto le donne e le persone lgbtqia+*.

Questo è un elemento importante e dirimente, perché non si possono mettere sullo stesso piano le violenze generiche di cui ogni persona può essere vittima e le violenze specificatamente legate all’odio e alla discriminazione subite dalle persone lgbtqia+*, così come non è possibile paragonare la violenza di genere – in particolare quella maschile sulle donne – ad ogni altra forma di violenza, in quanto sia il sessismo e la misoginia che l’omo-lesbo-bi-trans-afobia affondano le proprie radici in una disparità sistemica generata dalla nostra cultura patriarcale.

Il termine genere è un termine codificato dalla nostra cultura, dalla nostra società e dalla nostra giurisdizione attraverso una lente binaria. Il genere si fa. Si performa, per dirla con Butler. Non è un dato di realtà, ci si offre come una costruzione culturale e sociale (e per questo è spesso messo in contrapposizione al sesso biologico, come se il sesso biologico potesse dirsi appartenente ad un ordine naturale), che – come i femminismi hanno messo bene in luce – agisce come dispositivo di potere della norma imposta.

Forse, bisognerebbe parlare di discriminazione legata al ruolo di genere cioè all’insieme delle aspettative sociali e culturali legate al genere, e cioè a ciò che ci definisce socialmente come “donne” o “uomini” e in nome di questa differenza ci fa occupare un preciso spazio/gradino sociale. La violenza esercitata contro le donne e le nostre soggettività è spesso scatenata dalla nostra disobbedienza alle norme di genere.

In questa premessa, risiede il principale equivoco su cui il mondo femminista si è diviso a proposito della questione “identità di genere nel ddl Zan. Lo scontro ideologico tra sesso biologico e identità di genere, si basa su un’idea di sesso che da alcune femministe ci viene portata come assoluto ontologico, uno “specifico del femminile” a partire dal e in base al quale, si definirebbe il mio essere donna nel mondo. Questa prospettiva suggerisce che la mia anatomia, il corpo in cui sono nata, è il mio destino così come lo erano la maternità e il matrimonio, prima che 50 anni di lotte femministe non mettessero in discussione questo assunto e mi rendessero la donna libera di scegliere che sono oggi.

Sappiamo, invece, – per dirla con de Beauvoir – che “donne non si nasce, lo si diventa”. E non è il fatto di possedere una vagina o un utero a fare di noi delle “vere” donne. Assumere il sesso biologico come paradigma identitario unico, equivale a riconoscergli il carattere di norma oppressiva e trasformarlo nell’ennesimo dispositivo di potere al servizio di una nuova forma di patriarcato, questa volta agita dalle donne contro le donne non cisgender e tutte le altre soggettività.

Lo specifico non riducibile della differenza sessuale costituirebbe così la ragion d’essere del privilegio incarnato e fatto valere dalle donne cisgender sulle donne trans (percepite come uomini che si spacciano per donne) e sugli uomini trans (percepiti come donne che hanno tradito il femminile).

Ma c’è di più: secondo questa parte dl femminismo, l’identità di genere – raccontata come il nuovo neutro maschile universale che tutto comprende e tutto annulla – sarebbe un concetto ambiguo e pericoloso che oltre a cancellare il sesso biologico e invisibilizzare le donne, toglierebbe loro spazi (e risorse economiche) estendendo diritti e tutele a tutti coloro che si “autocertificano” come donne (o uomini).

Ma la realtà è un’altra: chi afferma che l’identità di genere è una conquista di libertà, non sta negando la realtà dei corpi o l’esistenza del sesso biologico, sta, invece, affermando che la nostra identità non è sovrapponibile in toto al corpo assegnatoci dalla nascita e non è meno “valida” o “degna” di essere nominata e riconosciuta, se non è allineata ad esso. L’identità di genere è tutt’altro che un concetto effimero e transitorio, ha a che fare con l’identificazione primaria della persona, la percezione che ha di sé e si stabilisce, solitamente, prima del terzo anno di età, entro la fase del linguaggio. Non è un vestito che si indossa in base all’umore della giornata. Ed è un concetto giuridico: ad esso fanno riferimento la Convenzione di Istanbul, i principi di Yogyakarta e la Corte Costituzionale (sentenza 221/2015).

I percorsi di autodeterminazione del genere non sono “autocertificazioni” e non ci sono criteri in base ai quali possiamo affermare che alcuni di questi percorsi siano più autentici di altri. Per questa ragione, la sostituzione richiesta dalle cosiddette femministe essenzialiste del termine di identità di genere con identità transessuale (concetto che non ha alcun riscontro nella giurisprudenza) nel ddl Zan, è una proposta irricevibile. Se la accogliessimo, attueremmo una discriminazione in una legge contro le discriminazioni, in quanto ai diritti e alle tutele previste dalla legge avrebbero accesso solo le persone in grado dimostrare di essere in un percorso di transizione medicalizzato: cioè chi assume ormoni o interviene chirurgicamente sul proprio corpo. In concreto, vorrebbe dire che chi non è in una condizione di disforia, non è tutelabile dalla legge. Il fatto di non riconoscersi nella definizione binaria di transessualità, invece, non può e non deve essere una discriminante, non può costituire uno sbarramento nell’accesso ai diritti.

 

Forse le femministe che chiedono la cancellazione dell’identità di genere dal testo dovrebbero ammettere che sono proprio i corpi sessuati che escono dalla normatività di genere a far paura, prima di tutto a loro.

Un paradosso, se si considera che è la stessa normatività di genere, contro cui si scontrano da sempre i femminismi, ad ingabbiare tanto le donne quanto le soggettività lgbtqia+*. Non possiamo permetterci di ridurre le soggettività plurali e i femminili irregolari ai corpi sessuati, perché ciò equivale a condannarsi ad una visione dicotomica dei sessi e dei generi che esclude e marginalizza, non libera i corpi ma li imprigiona, creando gerarchie e status di privilegio.

Dobbiamo lottare per liberare tutte le altre soggettività dal “destino biologico” come abbiamo lottato per liberare le donne dall’obbligo della riproduzione, affermando con coraggio che la differenza sessuale non certo è cancellabile, ma è colpevolmente funzionale ad un modello di sviluppo  che basa la divisione del lavoro e la riproduzione su un’idea di sesso “naturalizzato” – posto come dato immediato e incontrovertibile – espressione di un ordine naturale che di naturale non ha nulla, in quanto – per dirla con Wittig – è frutto di un discorso culturale, sociale e politico di cui noi siamo responsabili.

Oggi più che mai di fronte ad una legge necessaria e attesa da anni, dovremmo rifiutare questa lettura del sesso biologico contrapposta all’identità di genere e dovremmo preoccuparci solo di non escludere nessuna soggettività dalle coperture che questa legge di civiltà garantisce.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di una legge penale in cui é rilevante l’elemento psicologico del reato, “il movente” e la condotta tipica “motivata dall’odio”, rispetto alla quale le categorie sociali passano in secondo piano. Abbiamo il dovere di lavorare insieme, oltre le divisioni, rinunciando a polarizzazioni e posizioni ideologiche – per ampliare spazi di libertà e di diritto per tutte le persone.


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