Nel 2007 Alessandro, laureato in Economia e impiegato super qualificato, comunicò alla sua azienda che aveva deciso di diventare donna. Da allora nessun avanzamento (tranne uno automatico). L’istituto di credito nega: «Per noi conta solo il merito»
Articolo di Gianni Santucci e Elena Tebano, tratto da corriere.it
Il 6 giugno 2007, con ricorso a tutte le sigle possibili del linguaggio burocratico, la Banca popolare dell’Emilia Romagna comunica il giudizio professionale al proprio dipendente «Egr. Sig. Bernaroli Dr. Alessandro». Nove anni dopo, dicembre 2016, la stessa banca indirizza al medesimo dipendente un’altra comunicazione: «Gent.ma Sig.ra Alessandra Bernaroli». Stessa persona, stessa formazione, ma in un caso è «dottore», per di più egregio, nell’altro solo una gentilissima «signora»
Da “Dottore” a “Signora”
Tra le due comunicazioni è successo che, a partire proprio dal 2007, Bernaroli ha iniziato il proprio percorso di transizione, arrivando nel novembre 2008 ad acquisire il genere femminile sui documenti e a modificare il nome in Alessandra anche all’anagrafe: percorso che, non serve dirlo, non comporta la decadenza del titolo di studio. E invece la sua azienda, dopo il cambiamento di genere, in quasi tutte le comunicazioni «dimentica» la laurea. Ci sono anche molte di queste lettere allegate al corposo ricorso che l’impiegata ha presentato contro Bper Spa per discriminazione di genere, mancato riconoscimento del suo profilo professionale e demansionamento. Accuse che la Banca nega, ribadendo che «da sempre solo il merito, i risultati raggiunti e l’impegno verso l’organizzazione orientano i percorsi di carriera di tutti i dipendenti senza alcuna distinzione». E aggiungendo che «per quanto riguarda la valorizzazione dei talenti femminili, la Banca ha attivato varie iniziative tra cui il progetto “A Pari Merito”, che parte proprio dal presupposto che la parità di genere sia un elemento fondamentale all’interno della nostra organizzazione».
«Discriminazione sistematica delle donne»
Bernaroli invece è convinta che la sua storia permetta di mettere a fuoco la discriminazione sistematica delle donne sul posto di lavoro. A settembre si terrà la prima udienza al Tribunale civile di Bologna. Alessandra Bernaroli, 49 anni, entra da uomo in Bper nel 1999; nel 2001 l’assunzione diventa a tempo indeterminato. «Da uomo avevo avuto un buon percorso di carriera, la classica progressione che può portare alla direzione o vicedirezione di filiale. Quando ho iniziato a lavorare da donna, tutto è cambiato» dice. Ottiene un solo avanzamento di carriera, nel 2008, di fatto automatico (impiegata di secondo livello in area terza). Secondo quanto sostenuto nel ricorso firmato dal legale Domenico Tambasco, «la dottoressa Alessandra Bernaroli, dopo aver dedicato oltre vent’anni al servizio della Bper e nonostante i titoli e l’alta professionalità vantata, si è vista “ancorata al palo” degli inquadramenti contrattuali».
Parla inglese, francese e russo
Laureata in economia aziendale ad indirizzo banca e mercati, Bernaroli ha seguito, mentre lavorava un master di secondo livello in relazioni industriali e gestione delle risorse umane, un corso di alta formazione per amministratori di fondi pensione, più altri corsi interni, conosce inglese, francese e russo. Competenze che ha messo a frutto quando, tra il 2013 e il 2019, è passata al ramo assicurazioni della banca dopo 5 anni di attività sindacale. «Era un ufficio nuovo, ho introdotto migliorie mantenute tuttora» dice. Secondo il ricorso però a questo ruolo di «elevata responsabilità funzionale», in cui svolgeva le mansioni di un «quadro direttivo», non è corrisposto un adeguato riconoscimento contrattuale: è rimasta sempre inquadrata al livello di un addetto di sportello. «Non solo non facevo carriera, ma il responsabile non mi portava mai alle riunioni in cui presentava il mio lavoro: a prenderne merito c’ero solo lui. In un’occasione ho effettuato di mia iniziativa un’analisi dei rischi assicurativi che è poi stata usata dal vicedirettore generale vicario. Però non l’hanno fatta esporre a me, ma a un collega dell’ufficio acquisti, maschio» racconta.
Sorpassata anche dai meno titolati
«Dissi al mio responsabile che sarebbe stato più semplice se l’avessi presentata io. Rispose “Come? Vuoi andare tu a parlare con la direzione generale?”. Quasi rideva». Negli stessi anni, specifica il ricorso, Bernaroli ha assistito «all’incessante avanzamento di carriera di tutti i propri colleghi, anche meno titolati». L’analisi fatta dal suo legale delle progressioni di carriera comunicate dalla banca ai sindacati per gli oltre 8 mila dipendenti mostra che «l’83 per cento degli uomini assunti insieme alla Bernaroli nel 1999 ha ottenuto, al marzo 2018, un inquadramento superiore al suo e addirittura il 59 per cento un grado di quadro direttivo o superiore». Le donne invece «occupano la scala più bassa delle qualifiche aziendali; rispetto agli uomini assunti nel 1999, a marzo 2018 la maggior parte delle donne è nell’area terza; in netta minoranza sono le donne nei quadri direttivi e fra i dirigenti» (anche per questo la consigliera di Parità della Regione Emilia Romagna, Sonia Alvisi, prenderà parte al giudizio a supporto delle richieste di Bernaroli).
«Ottenere la promozione? Doveva restare uomo»
Le scelte Un’analisi rispetto alla quale l’avvocato Tambasco, che allega anche una perizia del luminare in medicina del lavoro Harald Ege, si concede una battuta: «Se avesse voluto fare carriera e ottenere la giusta e meritata promozione, la dottoressa Bernaroli avrebbe dovuto mantenere il sesso di origine».